Una storia lunga un secolo

In apertura del sito della nostra farmacia, mio figlio Paolo mi chiede di scrivere qualcosa. Dice che tocca a me la parte “istituzionale”, cioè l’istituzione sarei io. Questa constatazione mi lascia perplesso, credo che tutti noi proviamo meraviglia di fronte al tempo che passa. Cominciamo a lavorare, si forma una famiglia, i bambini diventano ragazzi, poi adulti ed eccoci qua a tirare le somme.

Il momento di inizio del mio lavoro in questa farmacia lo posso far coincidere con l’anno in cui mio padre e mia madre  con le sorelle e le relative famiglie si trasferirono a Perugia dove mio padre aveva vinto una farmacia per concorso.

Mio padre, Zefferino Pallante anche detto Zeffiro, era un farmacista “incurabile”, voglio dire che ancora mi meraviglia tutta la sua storia di attaccamento al lavoro di farmacista. Per cominciare, mi stupisce come, nel 1926, convinse suo padre mio omonimo ad investire del denaro in una farmacia sostenendo per giunta l’impegno di un forte debito bancario. Naturalmente, qualche anno prima, aveva iniziato il percorso di studi indispensabili. Il concetto di farmacia a quei tempi non era neanche lontanamente paragonabile a quello di oggi, caso mai era più vicino a quello del secolo precedente: preparazioni galeniche, un numero ridottissimo di specialità medicinali brevettate.

Il centro vitale della farmacia era il bancone del laboratorio. Lo descrivo come lo conobbi dopo la guerra, un po’ rimesso in sesto alla meglio. Un grande tavolo della pesantezza e robustezza dei banchi da falegname o da sarto, di faggio, credo, con un ripiano di marmo su cui si potevano preparare pomate; un paio di fornelli a spirito, bilance di diverse misure. Al centro del grande piano una

alzata con tre ripiani pieni di barattoli piccoli e grandi che contenevano polveri e sostanze liquide; i barattoli più grandi, molti a tappo smerigliato di vetro scuro, nel ripiano al di sotto del marmo. Questa massiccia struttura ben rappresentava il concetto della farmacia di allora. A corollario, negli armadi tutto intorno, le “specialità”, come una corte di “parvenu” intorno al sovrano. Nello stesso ambiente, per utilizzare anche lo spazio in altezza, una scala a chiocciola portava al ballatoio a vista con una ringhiera fatta di due tubi di ferro verniciati di verde.

Fino a una certa età, dopo non posso dire, considerai il ballatoio come un buon mezzo per vedere le gambe delle commesse. Perché, oltre a spostarsi lungo il ballatoio, si poteva, per arrivare agli ultimi ripiani, salire con i piedi sul primo tubolare di ferro facendo sicurezza con il tacco della scarpa e tenendosi con le mani ai ripiani stessi. Mi sembra di ieri il ricordo di mio padre con il camice bianco in quella posizione. Lui non era certo alto, quindi aveva spesso bisogno di queste salite “estreme”. – Se non lo trovi a “cuore” guarda a “circolazione”…. Si, perché le specialità sopra dette erano divise, incredibile a pensarci ora, per gruppi di attività. Quanta distanza concettuale dai moderni sistemi “caotici” dei contenitori e distributori automatici dei farmaci!

Torniamo al 1929 e osserviamo due fotografie in cui, al fianco di mio padre, compare una solida figura femminile in camice bianco. Incredibile per l’epoca, questa dottoressa, di cui non mi riesce  ricordare il nome, era polacca. I grandi mobili di noce che si vedono nella fotografia si persero con la guerra perché una bomba che colpì lo spigolo del palazzo fece cadere dentro i locali della farmacia gran parte dei piani superiori con il risultato che sopravvisse, di tutto l’arredo medicinali compresi, uno sgabello ancora rivestito di vinilpelle postbellico e l’indistruttibile bancone del laboratorio che riportò solo acciacchi curabili. Degli oggetti sopravvissuti voglio nominare un grande mortaio di bronzo del ‘600 e il mobiletto a cassettini che serviva a raccogliere le chiamate per i medici. Ogni cassettino una targhetta smaltata: Dott. De Santis, Dott.ssa Conversi, Dott. Conti, Dott. Tiberi, Dott. Mastrangeli, Dott. Berardi, Dott. Pacifici, Dott. Razzovaglia. Questi naturalmente sono i nomi degli ultimi medici che utilizzarono questo sistema. Il mortaio è ancora in farmacia, mentre nei cassettini ci sono viti di diverse misure. Tornando ai danni conseguenti alla guerra, non appena si poté utilizzare uno spazio minimo della farmacia dopo che il Genio Civile aveva ricucito lo spigolo del palazzo, mio padre riprese a fare il suo lavoro andando a Roma con una valigia dentro cui metteva dei medicinali che acquistava non appena ne aveva la

possibilità economica avendo venduto quelli del viaggio precedente. Credo che in queste spedizioni lo aiutasse mia nonna, una robusta donna romagnola. Poi una “Ardita Fiat” sopravvissuta alla guerra venne sacrificata: ero un bambino ma non posso dimenticare mio zio Francesco detto Checchino che, in ginocchio sul tetto della macchina, la stava segando per ricavarne un camioncino. E sempre lo zio Checchino, con la sua abilità manuale che mio padre non possedeva affatto, è protagonista di un altro ricordo. Lui che, seduto sul parafango con il cofano del motore aperto, versa benzina da una bottiglia in un imbuto collegato da un tubo direttamente al carburatore perché si è rotto il collegamento con il serbatoio. Così questo traffico del farmaco si evolveva in forme più organizzate. Si ricominciava a dividere le polveri su distese di cartine traslucide, una fila sovrapposta all’altra fino a fare il numero richiesto, le pillole tornavano a rotolare nella pilloliera spolverate di polvere di liquirizia, le supposte a freddarsi negli stampi di bronzo. L’odore della valeriana vinceva tutti gli altri facendo storcere la bocca ai non addetti e anche agli addetti e l’amaro della polvere di genziana o di camala arrivava alla lingua senza neppure aver commesso distrazioni del tipo di una bella risata o peggio di uno starnuto nelle vicinanze. Tutto scorreva regolare, almeno nel mio ricordo a distanza, il relativo benessere succeduto alla guerra era straordinario agli occhi di noi bambini. Perché era stato conquistato lentamente e a costo di sacrifici. Per me passarono gli anni di scuola fino all’Università, mi iscrissi alla facoltà di Farmacia e, dopo qualche esame di scienze politiche, indossai i  panni di farmacista come sottotenente e cominciai, devo dire lentamente, ad avvicinarmi alla farmacia.

L’inizio della fine della vecchia farmacia venne con la decisione, da parte mia assieme ad una mente scientifica che era e rimane quella del mio amico Franco Vincenzi, ingegnere, di sovvertire il famoso ordine per azione che ho ricordato sopra e sostituirlo con l’ordine alfabetico. Fabbricammo dei grandi tavolati sul ballatoio e su quelli venne mescolato tutto. Ne uscì l’ordine alfabetico. La scoperta dell’acqua calda! Anche la persona del tutto all’oscuro dell’attività di un medicinale poteva trovarlo. Si, anche perché, nel frattempo, il numero delle specialità era aumentato paurosamente.

Gli anni che seguono sono quelli della mia attività in farmacia. Sono cambiate molte cose e ho visto passare tante persone. Qualcosa ho cercato di mantenere e possibilmente aumentare col passare del tempo: il lato del rapporto umano prima ancora di quello professionale. Insomma, non sono io a doverne scrivere e ripasso la palla a Paolo.

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